Il Futurismo è universalmente noto ma scarsamente conosciuto. Questo perché non fu un progetto ma una pratica, specialmente una pratica comunicazionale. Non si adattò ai media, ma li adottò come materia prima. E si produsse in una molteplicità di esperimenti comunicazionali, che superarono in audacia perfino le grandi novità del suo tempo, così sconfinando con l’immaginazione ben oltre le possibilità tecniche dell’epoca. E ciò a partire dalla rivista «Poesia», fondata da Marinetti nel 1905, che fu appunto un “medium-materia prima”, un medium-messaggio.
«Poesia», per colpire
Prima ancora dei suoi contenuti, Marinetti ideò la forma e la formula visiva della rivista «Poesia». La rivista è in gran parte in francese, per centrare il target internazionale. Guarda insomma a Parigi, come altre riviste letterarie o artistiche d’avanguardia che si stampano in Europa: per esempio la russa «Zolotoe Runo». È lussuosa, e subito si distingue dalle solite riviste letterarie, stampate in economia. Marinetti sapeva quanto sono importanti i segnacoli del denaro. Sin dall’inizio «Poesia» doveva colpire prima di tutto come oggetto, poi il lettore avrebbe fatto i conti con il contenuto.
«Poesia» fu una palestra in cui Marinetti provò sul campo strategie di comunicazione riservate ad altri ambiti. Pubblicò inchieste insolite (la bellezza della donna italiana), oppure indisse concorsi letterari con premi assolutamente esagerati, dalle 500 lire iniziali fino alle 3000 nel bando apparso nel 1907i: somma corrispondente al valore di oltre diciotto milioni di vecchie lire del 1999, quando lo stipendio di un funzionario statale si aggirava sul milione e mezzo.
Egli sapeva che il medium più potente, universale e astratto, il medium della comunicazione simbolicamente generalizzato, come lo definisce Niklas Luhmannii, è il denaro. E lo usò allora senza risparmio quale volano per trasformare un evento, in questo caso il concorso, in parola, anzi in passaparola.
Marinetti fu infatti uomo dell’oralità, della performanceiii. Questa attitudine lo pose in condizione di intuire che la stampa doveva stabilire nuove alleanze con i nascenti media dell’immediatezza, della concisione e della fluidità verbale, ma anche visuale. Presto si alleò con il telefono, col telegrafo e con la radio, i quali avevano inaugurato l’era della “oralità secondaria”, come la definì Walter Ongiv.
Anticipando McLuhan di circa quarant’anni, capì che le forme della comunicazione non solo contengono il messaggio, ma sono esse stesse il messaggio, e lo dichiarò fin dal 1913: «Coloro che usano oggi del telegrafo, del telefono e del grammofono, del treno […] non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d’informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza. […] Queste possibilità sono invece per l’osservatore acuto altrettanti modificatori della nostra sensibilità»v. Elencò poi ben diciassette conseguenze di questi mezzi sulla percezione, molte delle quali sorprendentemente attuali, fino a prefigurare i concetti mcluhaniani del villaggio globale e delle tecnologie intese come protesi del sistema nervoso umanovi.
Tutto, già in «Poesia», denuncia l’approccio modernissimo di Marinetti alla comunicazione, a incominciare dalla scelta plurilingue praticata in quelle pagine. Ad esempio, il numero dell’aprile-luglio 1909 si apre con i punti del manifesto apparso su «Le Figaro», ma proposti in inglese. La lingua internazionale dell’aristocrazia, della diplomazia e della cultura era il francese, ma l’inglese iniziava la sua inarrestabile ascesa. In certa misura era già l’interlingua della scienza, della tecnica e della finanza, poco o punto, tuttavia, delle riviste d’arte o letterarie. Però, in quel fascicolo di «Poesia» Marinetti pubblica in francese le adesioni e le obiezioni al manifesto di alcuni tra i più noti critici, poeti, scrittori e giornalisti parigini. Ciò che egli ha scritto su «Le Figaro» è discusso da Paul Adam a Robert de Montesquiou, da Henry Bataille a Pierre Loti e a Charles Derennes: a significare che, dunque, il manifesto è davvero importante. Ed è uno schieramento di nomi che mira a colpire coloro che ricevono la rivista. Nel bersaglio ci sono soprattutto i redattori e i direttori di giornali. Sfoglieranno la rivista e constateranno, inoltre, che il futurismo è un inciampo inevitabile.
«Poesia» dichiarava una tiratura fenomenale (30.000 copie), che faceva pensare a una diffusione capillare, quale nessun’altra rivista culturale si sarebbe mai neppure sognata. Ma Cangiullo da Napoli scrisse al poeta di averla cercata ovunque, e invano, in ogni edicola o libreria. In realtà, tranne che a Milano, nel resto d’Italia era introvabile, il più delle volte. Marinetti cercava abbonati, o la inviava gratis, per posta. In «Poesia» i contenuti non occupano che una parte delle pagine. Tutto il resto è rivolto al fine di stabilire delle relazioni. Marinetti pubblicizza gratuitamente le testate e i recapiti di numerose riviste letterarievii. Lo scopo è quello di costruire le basi di una reciprocità che presto avrebbe dato frutti. Così egli “fece rete”, come diremmo oggi pensando ai link del web; e proprio come nella logica del web, Marinetti sviluppò la sua rete creando un sistema di hub e di sottoreti.
Il medium manifesto
Il manifesto di fondazione segnò il passaggio dall’esperienza di «Poesia» alla nascita del futurismo-movimento. In una lettera del 1912 a Balilla Pratella Marinetti scrive: «Manifesto vuol dire cosa da vedersi senza occhiali»viii. È il manifesto murale, il cartellone, che deve avere alta leggibilità grafica. Ma anche il manifesto documento programmatico deve essere chiaro, immediatamente intelligibile. Il termine, si sa, è usato per indicare media molto diversi tra loro, dal volantino al foglio affisso all’affiche figurata. Marinetti conosceva la dinamica di ciascun medium, la cui scelta doveva obbedire alle necessità del momento. Egli era attentissimo alla grafica, e, in effetti, il futurismo rinverdì la tradizione di una tipologia editoriale che precede perfino la stampa della Bibbia delle 42 lineeix.
La genesi della pubblicazione del “manifesto di fondazione” su «Le Figaro» è narrata dallo stesso Marinetti, ma non è chiaro quanta parte del racconto sia invenzione e quanta realtà. Basilare, comunque, è la scelta di quel giornale, fondato nel 1826 e diventato quotidiano dal 1866, sotto la direzione di Hippolyte de Villemessant. Dal 1879, diretto da Francis Magnard, «Le Figaro» aveva conquistato un posto rilevante nel panorama giornalistico parigino, superando le 80.000 copie di tiratura: ma precipitate a sole 20.000 agli inizi del secolo, a causa delle posizioni assunte nell’affare Dreyfus. Dal 1902, con la direzione di Gaston Calmette, «Le Figaro», aveva riguadagnato copie, riscoprendo l’antico ruolo di informatore non politico, letto da settori dell’aristocrazia e dalla borghesiax. Dunque, Marinetti scelse un giornale di grande prestigio, che annoverava, o aveva annoverato, tra i collaboratori scrittori come Marcel Proust, allora trentottenne e destinato alla fama, o come George Sand ed Émile Zola, morto da alcuni anni, di perdurante celebrità. Ma «Le Figaro» era anche il giornale che nel 1886 aveva pubblicato il Manifesto del Simbolismo di Jean Moréas. Ed era soprattutto un quotidiano teso alla ricerca di fatti sorprendenti, perfino provocatori, mirati a incrementare le vendite.
Calmette, però, per quanto possibile, teneva «Le Figaro» distante dall’agone politico. Egli dovette intuire il potenziale scandalistico ma politicamente non compromettente dell’esplosivo testo intitolato “Le Futurisme”. E in questo gioco di svariate convenienze, Marinetti ottenne il suo scopoxi, che era quello di lanciare il futurismo da Parigi: scelta d’elezione, se si considera che la “ville lumiére” era all’epoca, assieme a quella inglese, al centro del sistema internazionale della comunicazione, sia per il numero di corrispondenti di giornali che vi operavano, fornendo notizie a periodici e giornali di tutto il mondo, e sia per la potente funzione radiante dell’agenzia Havas. Mentre in Italia operava la Stefani, che era la minore delle agenzie di stampa europee. La Havas e l’inglese Reuter si contendevano il primato. Parigi era insomma una metropoli “emittente”: e lo era per eccellenza, non soltanto per quanto fin qui ricordato, bensì anche perché ben manteneva la posizione di capitale culturale europea e, in particolare, di città nella quale si producevano e si validavano le novità letterarie e artistiche, subito avviate ai processi di contestazione e di imitazione.
Così, l’eco prodigiosa del lancio di “Le Futurisme” premia la strategia comunicazionale di Marinetti. Il quale, peraltro, non trascura alcune pubblicazioni locali italiane, da «La Gazzetta dell’Emilia» a «La tavola Rotonda di Napoli, alle quali darà in anticipo frammenti del testo che apparirà su «Le Figaro»: tanto non se ne saprà nulla fuor della cerchia di pochi lettori, e men che altrove se ne saprà a Parigi. Infatti, le varie “anteprime” passarono inosservate, tant’è che sono dovuti trascorrere più di ottanta anni perché si scoprisse la loro esistenza. Il conclusione, con la pubblicazione del suo testo su «Le Figaro» Marinetti riuscì nell’intento di trasformare in dispositivo comunicazionale un’articolata, complessa proposta culturale. Un’impresa straordinaria. Ebbene, se un dispositivo comunicazionale si dimostra efficace, viene replicato. Così, i manifesti iniziarono a moltiplicarsi. Come, oggi, i virus del web.
Il primo manifesto futurista seguì un po’ il modello del manifesto del Simbolismo, e fu uno scritto letterario, un programma, un appello, una denuncia, una sequenza iperbolica e altro ancora. Fu un ibrido, ma Colmette lo pubblicò come un articolo. Un articolo di giornale, di singolare struttura. A leggerlo e a rileggerlo si consolida l’ipotesi che Marinetti lo compose anche con l’intenzione di scoraggiare una lettura attenta, analitica. Questo perché l’analisi, prodotta dalla forma mentis logico-sequenziale e lineare, derivante dall’economia noetica della stampa, ne avrebbe depotenziato i contenuti “esplosivi”. Per evitarlo Marinetti ricorse a vari accorgimenti: innanzi tutto il testo destinato a «Le Figaro» doveva essere bello, per riflettere le qualità letterarie dell’autore, ma anche perché non è detto che ciò che è bello, ciò che esprime un intenso valore estetico, debba esibire un’inappuntabile filosofia. Poi doveva impressionare o disorientare, lanciando ami che catturassero l’attenzione di riviste, agenzie di stampa, giornali, in modo da formare le basi di una memoria collettiva.
Dunque, una duplicità strutturale: la prima parte del manifesto è lirica, evocativa. La seconda è invece provocatoria, urtante, perché si avvale di due accorgimenti retorici: la violenza verbale, portata fino al limite della denigrazione, e l’esaltazione, tesa sino al limite della glorificazione. È un doppio registro che avrà successo e si rifletterà in quasi tutti i manifesti, almeno fino al 1920.
Nel testo che Marinetti pubblica su «Le Figaro», l’antinomia e la sintesi forgiano un prodotto che scoraggia, se non ostacola, l’analisi razionale. Dopo il prologo, anche la seconda parte del manifesto contiene frasi lapidarie, urticanti, appunto provocatorie, trasformando i contenuti in altrettanti gesti, sempre per evitare che il lettore indulga nell’analisi, e per far sì che scivoli invece sul piano emotivo. Infatti il gesto, che non è filosofico né speculativo, ma emotivo, resta impresso nella memoria collettiva.
I manifesti sono studiati in modo da lasciare di sé un’impressione generale, benché siano anche colmi di idee. Spesso si dividono in pars destruens e construens, scandite in punti allo scopo di costruire una gerarchia. Il primo è il più importante, ed è anche il più “irritante” e riassuntivo, tant’è che quasi sempre assomiglia a uno slogan. Per esempio: «Distruggere il culto del passato, l’ossessione dell’antico, il pedantismo e il formalismo accademico»xii. Talvolta lo slogan è eletto a titolo: «Uccidiamo il chiaro di luna!»; oppure «Abbasso il tango e Parsifal!».
L’articolazione in punti non era idea nuova, ma lo era il contesto in cui cadeva. I punti dovevano incoraggiare sintesi di idee e immagini, soprattutto immagini: flash per colpire targets il più delle volte limitati: ambienti artistici, o teatrali, o letterari, etc. Perciò la loro struttura era diversa da quella dei volantini e delle affiches, destinati invece all’indeterminata generalità.
I manifesti futuristi sono comunicativi, ma non largamente comunicativi, tant’è che, tra l’altro, non esibiscono un particolare appeal grafico. I primi e i più importanti appaiono composti dal titolo e dal testo. Dunque, una forma spartana, salvo il titolo, che spesso è uno “strillo” . Oltre che agli artisti, ai letterati, alla gente di teatro e via dicendo, essi sono diretti ai giornali in modo che questi ne siano incuriositi e li riprendano, pubblicandoli o comunque citandoli. “Scalare” i giornali attraverso i manifesti era un’impresa difficilissima durante gli anni ’10. I quotidiani, di sole quattro pagine, prediligevano le notizie “ufficiali” o seriose, e il teso di un manifesto, stampato su foglio volante, appariva ben trascurabile alle redazioni. La situazione cambiò negli anni ‘30, quando Marinetti, divenuto personaggio autorevole, ebbe la possibilità di pubblicare i suoi manifesti direttamente in alcuni giornali (per esempio «La Gazzetta del Popolo di Torino», di più ampia foliazione).
Marinetti sapeva che il giornale quotidiano, che definì «sintesi di una giornata del mondo», può essere occupato solo da una limitata quantità di informazioni tra le molte disponibili. Intuì che, in un’epoca in cui la stampa si avvaleva ancora poco delle fotografie per esaltare o per costruire notizie, contava soprattutto il titolo. E i manifesti futuristi volutamente suggeriscono spunti per titoli ad effetto. Egli mirava a conquistare l’attenzione, ma per raggiungere questo scopo bisognava fornire ai giornali la loro materia prima, cioè la notizia, il fatto inedito, sbalorditivo; oppure il grottesco, il curioso. Occorreva costituire dei “cunei di penetrazione” nel sistema della comunicazione. Perciò il rovesciamento del luogo comune, altro accorgimento retorico usato da Marinetti, non poteva essere fine a se stesso, ma doveva nutrirsi di invenzioni, non importa quali, purché efficaci. Il dettaglio di contesto non aveva, a tal fine, un’importanza decisiva.
Solo in seconda istanza i manifesti mirano a catturare l’attenzione di artisti, scrittori e cultori dell’artexiii, caricandosi di intenzioni proselitistiche. La questione dei contenuti (come anche l’affinità con le tecniche di propaganda politica o di marketingxiv) sebbene rilevante, era però superata dal fatto che Marinetti e i futuristi per la prima volta concepirono la comunicazione non quale strumento di cui avvalersi per promuovere qualcosa o qualcuno, bensì come il costituente primario del messaggio. Da qui la relativa importanza attribuita alla coerenza, attributo del pensiero, dei comportamenti e delle espressioni specialmente apprezzato nel tempo del massimo prestigio e della massima diffusione della stampa. Ma, per effetto sopraggiunto del telefono e poi della radio, presto la “condizione gutenberghiana” – già alla metà degli anni Venti – avrebbe dovuto cedere crescenti porzioni del suo dominio alla condizione di “oralità secondaria”: e questo cambiamento consentì al movimento futurista di poter accogliere personalità e tendenze le più svariate, nonché di adattarsi alle trasformazioni del media-system.
Va segnalato, inoltre, che la ragionata nonchalance di Marinetti pone nella giusta luce il fatto che egli, per il lancio degli eventi fondamentali, in genere non si affidò più di tanto ai “suoi” giornali, ma si rivolse ai media più diffusi e autorevoli. Paradossalmente, egli diffidava dei gruppi, la cui prima, inevitabile azione è quella di fondare una propria rivista o un proprio giornale, negandosi così al più vasto pubblico.
Per Marinetti quello che contava era il flusso comunicativo, la presa del messaggio più ancora del contenuto di esso: e perciò il futurismo non si può definire una filosofia, almeno nel senso più corrente del termine. Esso, quindi, non fu, nel suo insieme, un movimento assertivo, ma fu eminentemente estetico. E tale fu anche per aver prescelto la comunicazione più potente e pervasiva, dagli effetti quasi istantanei, che è quella estetica, poco gravata di contenuti. Come mostrano le attuali tecniche statunitensi di storytelling o le forme odierne e più suggestive di pubblicità.
Peraltro, Marinetti possedeva il giusto intuito per conseguire ‘l’effetto kairos’xv, cioè per la capacità di giovarsi o di preparare il momento e il luogo opportuno affinché la comunicazione cogliesse l’efficacia massima. Egli, com’è noto, differì la pubblicazione del manifesto di fondazione a causa dello spaventoso terremoto di Messina, del 28 dicembre 1908: tuttavia non per motivi di buongusto – come è stato sostenuto – ma perché sapeva che i canali della comunicazione, occupati dalle notizie del sisma, non avrebbero avuto la normale pervietà almeno per alcune settimane. Così il manifesto fondativo apparve su «Le Figaro» il 22 febbraio 1909.
Futurismo sui muri e nelle strade
Marinetti comprese il potenziale comunicazionale dei volantini, dei manifesti murali e delle affiches figurate. Queste, per essere realizzate in litografia, risultavano costose, sicché ne fu scoraggiato l’uso. Anche il volantino e l’affiche furono utilizzati per il loro potenziale comunicazionale. Per esempio, il 4 febbraio del 1914, in una lettera a Sprovieri, Marinetti disse che non le riteneva necessarie per una mostra di Severini. Anche in occasione dell’esposizione delle sculture di Boccioni a Parigi, nel 1913, sembra che, dopo alcune “prove di stampa”, si rinunciò alla tiratura di un cartello-réclame che si richiamava a Forme uniche della continuità nello spazio.
Al contrario, Marinetti faceva maggiore affidamento sui volantini: fogli volanti, appunto, da lanciarsi dalle automobili, dai treni nelle stazioni o dai luoghi alti. Celebre resta il lancio dei volantini Contro Venezia passatista, compiuto il 27 aprile 1910 dal Campanile di San Marco.
Oltre a essere spettacolare, il volantino si adatta ad ogni situazione e, come il vento che lo trasporta, per essere efficace esso non deve caricarsi di intenzioni che superino la sua intrinseca leggerezza. Nei Taccuini xvi Marinetti ricorda di viaggi in cui aveva con sé una grossa valigia contenente vario materiale di propaganda, soprattutto manifesti e volantini. Benché non fosse un medium giovanissimo, il volantino (per “li rami” discendente dai bandi) divenne poco costoso specialmente dopo l’introduzione delle moderne macchine stampatrici automatiche. Esso quasi si trasforma in un telegramma telepatico, indirizzato a chiunque. Bello a vedersi, perché invade turbinando gli spazi pubblici, imponendosi all’attenzione dei passanti per il solo fatto di giungere inatteso, o inusuale. Forse perciò fu largamente usato dai futuristi. E a un futurista, Francesco Cangiullo, viene accreditata l’invenzione (dettata dal caso e collaudata a Palermo) del volantino privo di parole o di segni, al recto come al verso: foglietti rossi lanciati a migliaia nelle strade per destare l’attesa di un evento. E quale?
Si può ben supporre che anche l’invenzione delle tavole parolibere derivi da una concezione moderna della comunicazione. Oggi possiamo dire che le parole in libertà inaugurarono una comunicazione olistica e sintetica, che utilizzò il medium stampa soltanto come un pontexvii, in vista di altri media che un giorno sarebbero stati la vera onda portante di nuove dinamiche. Marinetti ripeteva che in futuro non sarebbero esistiti altro che enormi cartelloni colorati illuminati di tavole parolibere, come gli attuali billboardsxviii. E in un manifesto del ’42 si legge che «[…] le pagine dei nostri romanzi sintetici futuristi e specialmente le pagine dei nostri quotidiani fusi e dialoganti colla radio saranno paragonabili a urbanismi futuristi i cui avvisi luminosi […] spingono il lettore verso altre piazze-pagine»xix. Quasi che le innovazioni introdotte dal futurismo nei vari settori dell’arte tipografica non fossero che prodotti transitori, destinati ad essere superati da modalità di fruizione di là da venire, estranee ai limiti della pagina stampata.
Ai giorni nostri notiamo che gli effetti di certe invenzioni grafiche e linguistiche dei futuristi si estendono ben oltre il linguaggio della pubblicità, del fumetto e anche oltre gli esperimenti della poesia visiva e della poesia concretaxx. Questa influenza si manifesta mano a mano che le tecnologie semplificano la manipolazione dei testi e delle immaginixxi. Perciò la ricerca delle sintesi dinamiche, espressive e sinestetiche, iniziata con le tavole parolibere, derivava dall’intuizione che una nuova, rivoluzionaria psicodinamica si affacciava all’orizzonte e che il medium ideale per esprimere queste modalità della comunicazione doveva ancora emergere dallo stampo di invenzioni in quel tempo già esistenti, o in avanzata fase di sperimentazione, come la tv.
Infatti, l’automobile, l’aereo, la radio e il telefono avevano iniziato a sbriciolare la percezione delle distanze, frantumando, moltiplicando e perciò svalutando luoghi e territori. Altresì, la produzione meccanica delle merci, inaugurando l’era della serialità, aveva iniziato a svalutare l’importanza degli oggetti. Forse anche in questo senso Marinetti affermava che “il tempo e lo spazio morirono ieri”. In realtà, per effetto delle tecnologie, la risorsa fondamentale iniziava ad essere il tempo. E Marinetti si rese conto che l’accelerazione produceva penuria temporale. Si profilava un nuovo regime di scarsità, in cui una risorsa apparentemente poco tangibile diventava automaticamente insufficiente, perché una fondamentale legge economica afferma che la risorsa più scarsa è anche la più preziosa.
Inoltre, la meccanizzazione investiva anche il mondo della carta stampata (la linotype fu inventata nel 1881, la rotativa ad alta velocità nel 1860). Pertanto, la produzione industriale del sapere prese a ostacolare la valutazione qualitativa di ciò che veniva stampato, frenando la sua memorizzazione, incoraggiando la sintesi, favorendo il passaggio dall’economia noetica della scrittura a quella della scrittura-immagine e infine della sola immagine. Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista Marinetti affermava che bisogna eliminare avverbi, tempi verbali e punteggiatura, usando segni matematici che dinamizzino la scrittura. È quasi un’anticipazione della scrittura sintetica degli sms e delle chat, forse scaturita dall’intuizione che il progresso dei mezzi elettronici avrebbe presto o tardi incoraggiato forme di comunicazione contratte e alla portata di tutti.
Certamente, queste soluzioni, non del tutto nuove, gli furono almeno in parte suggerite dalla scrittura telegrafica, che per le sue caratteristiche invitava alla sintesi. Marinetti intuitivamente praticava il “principio di inclusione”, secondo il quale i media più lenti, come la scrittura, vengono risucchiati dai più veloci e poi da essi modificati, piegandosi alle necessità di un nuovo habitat informazionalexxii. La scrittura si trasformava in un nuovo medium, che avrebbe inglobato e modificato le codificate forme dei letterati o dei professionisti della penna.
Accelerazione vuol dire anche impossibilità della ricapitolazione, perché la velocità accresce la massa, fino a un punto critico. Da qui l’insofferenza nei confronti delle istituzioni deputate alla conservazione della memoria, e l’urgenza di esprimersi in modo forte, immediato, usando tutti i codici possibili, o perfino nessun codice, come accadde con l’invenzione del libro di latta: un oggetto che in sé annulla ogni riferimento ai contenuti.
Certo, le innovazioni grafiche dei futuristi avevano anche scopi pubblicitari. Ma bisogna distinguere dall’uso degli stili futuristi nella realizzazione di pubblicità contro terzixxiii (Campari, Cinzano, Cirio etc.), che si avvalevano di una riconoscibilità futuristaxxiv, dalle pubblicità “interne”, rivolte ai prodotti e alle invenzioni futuriste, come le copertine di libri, riviste o cataloghi. La rivoluzione tipografica sperimenta le estreme possibilità del medium stampa, fino all’abolizione del libroxxv e all’invenzione del libro-oggettoxxvi, ma contemporaneamente, per il suo tramite, il futurismo traccia sentieri per altre modalità, dove l’opera a stampa non è che trampolino di lancio per immettersi nel flusso più generalizzato, universale, capace di sfidare il tempo indipendentemente dai contenuti, anzi proprio per effetto del loro abbandono.
Per ottenere la risonanza del sistema di comunicazione, inteso come una sola rete, occorreva ridurre il legame tra i segni e i denotati, così forti nel medium scrittura, fino ad esaltare la sola forma. Questo processo condurrà al Depero futurista, il libro imbullonato del 1927, e alle litolatte realizzate da Tullio d’Albisola, dove il contenuto, inessenziale, è inglobato dalla forma e perfino dal materiale. Si realizza così la perfetta coincidenza tra il medium e il messaggio, il quale continua a risuonare a distanza di settanta anni e ad essere oggetto di studio, pur non affermando alcunché, semplicemente esibendo se stesso. Dove? Ma in milioni di foto diffuse in tutti i media: libri, cataloghi, giornali, e ora nel web.
Le Poste, una “rete”
Marinetti fu un grande utente delle poste. Egli dettava lettere e cartoline a Decio Cinti, che sapeva imitare la grafia del leader, o dettava alle segretarie, o perfino a chi si trovava per caso nella sede del movimento. Migliaia e migliaia di cartoline, quasi sempre scritte a mano, raramente a macchina. Oppure erano telegrammi. È stato ravvisato, in questa apparente idiosincrasia per la macchina per scrivere, un tratto passatista di Marinettixxvii. Eppure, già quando abitava a Milano in via Senato, possedeva il telefono, a quei tempi raro e costoso, ma istantaneo e simultaneo, nonché orale: e a lui congeniale. Invece non amava la macchina per scrivere, che impone una intrinseca rigidità tipografica, una obbedienza alla scrittura logico-sequenziale, agli antipodi dell’espressività marinettiana.
La case di Marinetti furono prodigiose centrali di smistamento e di ricezione di posta in arrivo o in partenza: riviste, opuscoli, libri, manifesti, cartoline, biglietti, telegrammi. All’epoca la vera rete di connessione globale delle informazioni era quella postale, così come la rete di connessione fisica era costituita dalle ferrovie. La consuetudine con la rete postale suggerì un’arte postale futurista, cosicché medium e messaggio furono coincidenti.
Originalità grafiche corsero allora per il mondo, passando di mano in mano prima di essere recapitate al destinatario, suscitando curiosità anche in persone estranee all’ambiente dell’arte, della critica o del giornalismo. Fu uno sfruttamento intensivo e singolare della rete, derivato dalla comprensione del suo potenziale.
Le serate futuriste
Anche le serate futuriste furono dei ‘dispositivi’ comunicazionali basati sull’uso intensivo di tutti i media disponibili in quel tempo. Ai contenuti delle serate fu assegnata un’importanza relativa. Quel che contava, ai fini della riuscita, era invece l’organizzazione dell’evento, che si articolava in varie fasi. La prima consisteva nell’accensione della curiosità. Marinetti, nel 1910, preparò la “serata” al teatro Mercadante, a Napoli, facendo affiggere grandi manifesti con la parola “FUTURISMO” già molto in anticipo rispetto alla data della “serata”. Cangiullo racconta che in via dei Mille fu colpito da un cartellone grande come un lenzuolo, recante appunto la scritta “futurismo” in caratteri cubitali, rosso vermiglioxxviii, sicché la gente si fermava e commentava, anche perché il termine era un neologismo sconosciuto: esso stesso un dispositivo comunicazionale.
Quel manifesto fu una novità. Subito si distinse dagli altri che tradizionalmente declinavano finalità politiche, culturali o promozionali; fu un grimaldello erga omnes, per diffondere una curiosità generalizzata. Anticipando i tempi, Marinetti intuì che il manifesto murale non è un supporto per testi, sia pur brevi, ma, nella giusta realizzazione, è un medium sintetico, per il fatto che esso deve esser visto in velocità dal tram, andando in bicicletta o a passeggio. Solo molto tempo dopo un secondo manifesto, di formato normale, annunciò l’arrivo al “Mercadante” dei futuristixxix. Allora tanti collegano la parola ‘futurismo’ a Marinetti e ai suoi compagni.
Nella preparazione delle “serate” Marinetti non trascurò alcun espediente, dalla pubblicità negativa, già sperimentata in altre circostanzexxx, al potere che lasciava immaginare la sua fama di milionario, rimarcata da auto di lusso e grandi alberghi. Ma anche a “serata” conclusa il dispositivo della comunicazione continuava a lavorare: bisognava stilare i “telegrammi cumulativi”, con un testo sintetico, di sette otto righe, preparato in modo da solleticare la stampa perché incentrato sui tumulti, sul clamore, sulla baraonda – materie prime dei giornali – e non sui contenuti. I futuristi, in assenza di corrispondenti, svolgevano quindi anche le mansioni d’ufficio stampa, perché il dispaccio stilato da Marinetti veniva poi ricopiato e tempestivamente spedito ai quotidianixxxi.
Tutte le serate futuriste ricalcheranno con poche varianti questo schema. Esse non miravano a trasmettere contenuti, ma a diventare il paradigma di come si deve inscenare un evento che faccia parlare di sé. Insomma, Marinetti considerò le serate come dei media e non come dei contenitori di messaggi, tant’è che nel manifesto-articolo Gli sfruttatori del Futurismo diffidò gli imitatori, sostenendo che «[…] non possedendo la nostra abilità strategica e la nostra solidarietà di battaglione bene allenato, rischiano senza di noi, di subire dei rovesci dannosi al Movimento. Intensifichino dunque la propaganda in sale private, dove possono utilmente divulgare i principii del Futurismo ad un pubblico non troppo numeroso e perciò attento»xxxii.
La rivoluzione radiotelevisiva
Marinetti – che Cangiullo nel ’21 chiamò “poeta-radio” xxxiii – intese la radio e la televisione quali strumenti interattivi. Si proiettò nel futuroxxxiv e immaginò inedite potenzialità delle due tecnologie, funzionanti all’epoca come media unidirezionali, dall’emittente a una pluralità di riceventi quasi passivi. Questa prospettiva era coerente con i principi del futurismo, che mirava alla fusione di tutti i media in un insieme più complesso. Infatti la scrittura, la lettura, la conferenza, il teatro tradizionale o il cinema sono sempre forme di comunicazione unidirezionali, e così furono anche le trasmissioni radio e televisive, le cui origini com’è noto risalgono ai primi decenni del secolo scorso.
Marinetti era affascinato dalla televisione, esistente già negli anni Venti grazie agli esperimenti di Zworykin negli Usa o di John Logie Baird in Inghilterra. Il primo programma televisivo fu realizzato a Berlino nel 1935, ma anche negli Usa e in Gran Bretagna si era a buon punto, e altresì in Italia.
Non stupisce, quindi, che in La Radia, manifesto dedicato alla trasmissione dei soli suoni, si citi «[…] la televisione che già può trasmettere cinquantamila punti per ogni immagine grande su schermo grande»xxxv. Marinetti, addirittura, era in fiduciosa attesa di tecnologie che avrebbero reso possibile il teletattilismo, il teleprofumo e il telesapore. Però egli considerò il medium televisivo come uno strumento bi o pluri-direzionalexxxvi.
Marinetti aveva già collaudato la comunicazione bidirezionale tra scena e platea nelle serate futuriste, sviluppando situazioni di condivisione presenti in altri ambiti, per esempio nel Café Chantant, e mettendo in pratica quanto già annunciato nel manifesto Il Teatro di varietàxxxvii. Perciò la radio (e la televisione) che egli descrisse, non coincide con la tecnologia del suo tempo, le cui potenzialità e limiti aveva saggiato dal vivo. Tra il 1938 e il 10 luglio 1943 Marinetti realizzò sedici interventi per conto dell’EIAR; il 23 maggio del 1941 gli fu affidata la rievocazione dei Fasci di combattimento, e celebre è la sua radiocronaca del 12 agosto 1933 per l’arrivo a Ostia dei ventiquattro idrovolanti di Italo Balbo partiti dal Nord America.
Alla radio Marinetti sperimentò limiti e potenzialità di un medium destinato al solo udito. Però, priva della gestualità e dell’espressività, la declamatoria marinettiana appariva artificiosa, caricata. Mancava l’interazione col pubblico, cosicché si può intendere il perché Marinetti negli anni ’30 e negli scritti degli anni ’40 ipotizzi un genere di radio e di televisione che oggi definiremmo “interattive”.
Infatti, in La Radia si afferma che la radio non è ma “sarà”, e in L’aeropoema di Gesù egli fa interagire sette radio che comunicano tra loro in una sinfonia di messaggi poeticixxxviii.
Così è anche la televisione immaginata nel romanzo Originalità russa di masse distanze radiocuori, dove Marinetti descrive un medium che annulla lo spazio in modo molto simile alla moderna teleconferenza, o al videofonino. Nel romanzo l’ingegnere Mario Frescodanza invita il poeta a studiare il suo «[…] apparecchio radiotelevisivo a potenziale superiore»xxxix. Dal prodigioso strumento scaturisce l’immagine tridimensionale della signora Violetta Frescodanza, quasi un ologramma (anche profumato), che conversa con Marinetti e col marito.
L’intero romanzo mostra che Marinetti comprese che i media elettronici, coronando e assorbendo tutte le altre modalità della comunicazione, assottigliano le identità di gruppo, aboliscono la prospettiva privilegiata, cioè il contenuto, e incoraggiano una visione pluricentrica e globale della comunicazione.
i Cfr. Il Nuovo Grande Concorso di «Poesia» , in «Poesia», III, 1-2-3-4, febbraio-marzo-aprile-maggio 1907.
ii Niklas Luhmann, Raffaele De Giorgi, Teoria della società, FrancoAngeli, Milano, 2003, p. 105 e sgg.
iii Gino Agnese, L’oralità di Marinetti, in F.T. Marinetti. Arte-vita, a cura di Claudia Salaris, edizioni Farhenheit 451, Roma, 2000, pp. 109-112.
iv Walter J. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, Methuen, London and New York, 1982, Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna, 2000.
v F.T. Marinetti, Distruzione della sintassi immaginazione senza fili parole in libertà, 11 maggio 1913.
vi G. Agnese, Il profeta Marinetti cinquant’anni dopo, in «Mass Media», XIII, n. 5, 1994, pp. 38-41. Cfr. anche Francesco Iengo, Cultura e città nei manifesti del primo futurismo. 1909-1915, Vecchio Faggio, Chieti, 1986.
vii L’ultima pagina dell’ultimo numero rivela l’estensione di questa rete, dalla parigina «Pan» alla russa «La Balance» alla greca «Le Monde Hellénique» all’ungherese «Revue de Hongrie».
viiiMarinetti, Lettera a Balilla Pratella, 28 aprile 1912, Fondazione Primo Conti, Firenze, in Claudia Salaris, Marinetti editore, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 128.
ix Cfr. Ugo Rozzo, La strage ignorata. I fogli volanti a stampa nell’Italia dei secoli XV e XVI, Forum, Udine, 2009.
x Cfr. Ernst Ulrich Grosse – Ernst Seibold (dir), Panorama de la presse parisienne. Histoire et actualité, genres et langages, Peter Lang, Frankfurt am Main, 1994, p. 106 e sgg.
xi Da allora il manifesto viene fotografato e riprodotto infinite volte e diventa una delle testate storiche tra le più citate: un successo pubblicitario straordinario.
xii Manifesto dei pittori futuristi, 11 gennaio 1910.
xiii Questo principio sembrerebbe contraddetto dai manifesti della pittura, della scultura etc. Ma questi precedono la realizzazione delle opere. Nel Futurismo la comunicazione ha preceduto l’opera, mentre nel mondo della produzione, anche intellettuale, accade il contrario, poiché la comunicazione è impiegata per il lancio di un prodotto già esistente, che attende solo di essere ri-conosciuto.
xiv Glauco Viazzi, Il Futurismo come organizzazione. Tecniche e strumenti di gruppo, in «Es», a. n. 5, settembre-dicembre 1976, pp. 37-60.
xv B. J. Fogg, Persuasive Technology, Elsevier Inc., 2003, Tecnologie di persuasione, Apogeo, Torino, 2005, p. 214 e sgg.
xvi F.T. Marinetti, Taccuini. 1915-1921, il Mulino, Bologna, 1987.
xvii La rivoluzione tipografica consiste nell’assunzione di una forma che si sviluppa nei decenni. Fin dai primi tempi Marinetti sperimenta le potenzialità formali della stampa. Ad esempio, quando «Lacerba» accoglie i finanziamenti di Marinetti, la testata si espande per oltre la metà del giornale. Ed è come trasformare il messaggio in medium, dando a colpo d’occhio l’impressione di leggere qualcosa di grande, ricco, influente; oppure bizzarro, come la copertina di BÏF§ZF+18. Simultaneità e chimismi lirici di Soffici; oppure di singolare, ma tecnicamente possibile, ed ecco Il libro del teatro della sorpresa di Cangiullo, con le pagine bianche, gialle, rosse.
xviii L’idea dei cartelli stradali luminosi con scritte elettriche, se non elettroniche ante litteram (perché in movimento) era nell’aria da tempo, com’è noto. Ad esempio, li immagina e descrive Robert Benson in Lord of the World, scritto nel 1907, oppure affiora nelle descrizioni della città futura in When The Sleeper Wakes, scritto da Herbert G. Wells nel 1899 e rivisto nel 1910; per non dire dei giganteschi slogan pubblicitari direttamente proiettati nel cielo, immaginati da Villiers de L’Isle-Adam in L’affissione celeste, nei Contes cruel, pubblicati nel 1883.
xix F.T. Marinetti, L. Scrivo, P. Bellanova, manifesto senza titolo, in «Graphicus», XXXII, n. 5, 1942, pp. 6-7.
xx A. Stefanelli, Comunicazione, voce in Il dizionario del Futurismo, Vallecchi, Firenze, Tomo I, p. 317.
xxi Questa influenza si estende all’attualità, che testimonia la ripresa delle sperimentazioni degli anni ’50 e ’60. Le nuove tecnologie accolgono e riscoprono le idee di Marinetti o di Pino Masnada, o le realizzazioni di Pannaggi e Depero. Un esempio è il video di Antoine Bardou-Jacquet per The Child del musicista Alex Gopher (vedi http://www.youtube.com/watch?v=ZGWkdNWFZiI), in cui storia e ambientazione insieme sono vere tavole parolibere, animate in 3D. Per non parlare degli enormi sviluppi della Kinetic Typography, ispirata al paroliberismo. Per una panoramica di questo fenomeno estetico-comunicazionale, basta una ricerca su YouTube con il query “kinetic+typography”.
xxii Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918, Cambridge, Massachussetts, Harvard University Press, 1983, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Ottocento e Novecento, trad. it. di Barnaba Maj, Bologna, Il Mulino, 1995.
xxiii Cfr. Giovanni Fanelli – Ezio Godoli, Il Futurismo e la grafica, Edizioni di Comunità, Milano, 1988.
xxiv Cfr. Claudia Salaris, Il Futurismo e la pubblicità. Dalla pubblicità dell’arte all’arte della pubblicità, Lupetti & Co., Milano, 1986.
xxv Giovanni Lista, Le livre futuriste de la libération du mot au poème tactile, Panini, Modena, 1984, p. 10.
xxvi Ivi.
xxvii Dario Morelli, La storia della macchina per scrivere, La scuola, Brescia, 1956.
xxviii Francesco Cangiullo, Le serate futuriste, Tirrena, Napoli, 1930, p. 17.
xxix Ibidem, p. 64.
xxx Com’è noto, il «Monsignor Perrelli» dedicò un numero in francese a Marinetti, che si dichiarava poeta italiano ma si esprimeva nella lingua di Diderot e di Voltaire.
xxxi F. Cangiullo, Ibidem, p. 74.
xxxii F.T. Marinetti, Gli sfruttatori del Futurismo, in «Lacerba», II, n. 7, Firenze, 1° aprile 1914.
xxxiii F. Cangiullo, Inno a Marinetti, in «Fiammalta», 1° novembre 1921.
xxxiv Anche altri tentarono di immaginare gli sviluppi della radio, ad esempio in Russia il poeta Velimir Hlebnikov scrisse nel 1921 e pubblicò nel 1927 La radio del futuro. Cfr. Vladimir Pavlovic Lapšin, Marinetti e la Russia, trad. it. di Michela Trainini, Skira, Milano, 2008.
xxxv F.T. Marinetti – Pino Masnada, La radia, in «Gazzetta del Popolo», 23 settembre 1933.
xxxvi Quasi a profetizzarne il futuro pervasivo, la televisione nei testi di Marinetti ricorre anche là dove sembrerebbe fuori tema: per esempio nel Manifesto della cucina futurista, sulla «Gazzetta del Popolo» del 28 dicembre 1930: «Perché ancora opporre il suo blocco pesante alla rete di onde corte lunghe che il genio italiano ha lanciato sopra oceani e continenti, e ai paesaggi di colore forma rumore che la radiotelevisione fa navigare intorno alla terra?».
xxxviiF.T. Marinetti, Il Teatro di varietà, in «Daily-Mail», 21 novembre 1913.
xxxviii F.T. Marinetti, L’aeropoema di Gesù, Editori del Grifo, Montepulciano, 1991, p. 43 e sgg.
xxxix F.T. Marinetti, Originalità russa di masse distanze radiocuori, Voland, Roma, 1996, p. 92 e sgg.