Pubblicato in “Mass Media”, anno XI, n. 2, marzo 1992, pp. 5-11 e secondo di una serie i saggi riguardanti la realtà virtuale e le nascenti reti telematiche apparsi sulla stessa rivista tra il 1991 e il 1995.
L’attuale stato delle ricerche sulla Realtà Virtuale nasce dall’impegno d Jaron Lanier dei laboratori della californiana Vpl Research Inc. Parallelamente, Scott Fisher e Warren Robinett, dell’Ames Research della NASA, avevano lavorato a progetto “Virtual Environment Workstation”, mentre in tempi recenti Lanier e la Vpl hanno messo a punto i sistemi VR RB2 (Reality Built for Two) che consentono gli incontri e l’interazione totale fra due o più persone, realizzando, di fatto, ciò che lo scrittore William Gibson, quasi vent’anni fa, aveva profeticamente definito il “Cyberspace”.
In sostanza, come si dice, il ciberspazio riproduce uno spazio virtuale tridimensionale quasi indistinguibile dalla realtà stessa, in cui l’utente può letteralmente “immergersi” utilizzando alcuni accorgimenti tecnici altamente sofisticati. Questa illusione è rafforzata dalla possibilità di interagire con gli “oggetti” virtuali mediante un’interfaccia cibernetica (dataglobe o datasuit) che riproduce le sensazioni del tatto (tramite un “ritorno di forza”), della manipolazione e dello spostamento nello spazio.
Attualmente, il sistema ha valicato i confini del laboratorio per intraprendere la strada della commercializzazione, preceduto dal Dataglove della Nintendo, oggi è disponibile il perfezionato sistema “Provision”, ideato dalla Division Ltd a Chipping Solbury, presso Bristol. Fra le caratteristiche del sistema, stupefacenti sono l’espandibilità, ovvero la possibilità di aggiungere più schede per incrementare le possibilità dell’ambiente virtuale, e l’autoistruzione, ovvero la capacità di creare, memorizzare e utilizzare i nuovi scenari virtuali definiti nel corso dell’attività interattiva. Siamo veramente alle soglie della scoperta di un nuovo medium? E quali effetti esso potrà avere nel futuro prossimo?
Qualche segnale di preoccupazione viene dal mondo del cinema. Infatti, col proverbiale acume del regista di vaglia, Wim Wenders, nel suo recente “Fino alla fine del mondo”, ipotizza la scoperta di un superciberspazio. Questa, in breve, la trama della pellicola. Corre l’anno 1999, data piena di echi millenaristi ed escatologici; il pianeta è minacciato dall’apocalisse nucleare, le città sono ridotte a babelici gironi infernali; ma indifferente a tutto ciò Henry Ferber, tipo dello scienziato pazzo, scopre un rivoluzionario elettroencefalogramma che trasforma le polluzioni oniriche in immagini video, rendendo così accessibile alla coscienza diurna quell’oscuro mondo che Marguerite Yourcenar definì “la popolazione prodigiosa dei sogni”. Una invenzione invero disastrosa, perché le malcapitate cavie umane subiscono quasi senza accorgersene il fascino proibito dello specchio di Narciso, finendo col chiudersi in una solipsistica ricerca di se stessi, condannandosi ad un viaggio introspettivo allucinante ed eterno.
In cinema e letteratura
Naturalmente nel film tutto finisce nel migliore dei modi; ma chi interpreta il ruolo dell’eroe? Guarda caso, uno scrittore, Eugene Fitzpatrick, interpretato da Sam Neil, dichiarato nemico delle diavolerie elettroniche e amante segreto della musa Calliope. Medico dell’anima, Eugene salverà la bella Claire Tourneur propinandole una strana medicina: un libro, un semplice, banale libro carico delle virtù taumaturgiche della scrittura. Dunque, oralità, immagine e scrittura: evidentemente Wenders la sa lunga sui rapporti fra i tre modi di espressione del pensiero.
Però non da adesso il fascino dei mondi possibili stimola l’intelligenza a cimentarsi con il futuro e anzi con il proprio futuro. Escludendo le ormai obsolete ipotesi orwelliane, un interessante antesignano di queste speculazioni fu Aldous Huxley, che in “Brave New World”, il ben noto romanzo utopico ambientato intorno alla metà del terzo millennio, descrisse un orribile mostro politico sorretto da tecnologie multisensoriali, in grado di dominare le masse ricorrendo alla somministrazione di sogni artificiali (1). Huxley pubblicò il suo romanzo nel 1932, quando il test di Turing era di là da venire e con esso l’idea di costruire un elaboratore elettronico. E ciononostante, il celebre scrittore comprese che la percezione possiede caratteristiche “elastiche”, relazionabili al contesto, e che i limiti dell’adattamento sono molto più vasti di quanto i luoghi comuni vogliano far credere.
Ma tornando in medias res, in che senso quello del cyberspace è un mondo inesistente? Non è forse vero che “essere” è “percepire”? E fino a che punto la realtà virtuale può modificare la relazione fra sensi ed intelletto?
Badiamo intanto ai dati tecnici. Oltre al dataglove, al display e all’audio in cuffia stereofonica, il sistema “Provision”, del quale si diceva all’inizio, dispone del “Distributed Visual Environment System”, un complesso di differenti sistemi autonomi di elaborazione, ciascuno dei quali si dedica alla sintesi audio, alla generazione di immagini, al riconoscimento dei gesti, all’elaborazione del colore, alla collisione e così via. Evidentemente, il Provision espande innanzitutto le proprietà dello spazio visuale e di conseguenza la percezione cinestetica del medesimo. In termini logici, ciò significa che mutano profondamente le relazioni sussistenti fra gli oggetti del mondo reale e i simboli che li definiscono nel linguaggio scritto o parlato. E in particolare, viene a cadere il rigoroso rapporto fra le parti di un oggetto e l’oggetto stesso, e in generale tra le parti e la totalità, rapporto logico-ontologico prima ancora che percettivo (2).
In tema di percezione
In questa sede, la nozione intuitiva di “parte-tutto” non interessa tanto per i numerosi problemi teorici connessi al calcolo, quanto per la funzione che essa assolve nell’ambito della teoria dell’inconscio come insiemi infiniti, sviluppata da Ignacio Matte Blanco nel corso di un trentennio. È noto che alla base di tutto il pensiero del teorico e scienziato cileno vige l’incompatibilità tra il “pensiero asimmetrico” rispetto al “pensiero simmetrico”. L’universo del pensiero asimmetrico – seguendo Matte Blanco – corrisponde a un’estensione, sul piano semantico e pragmatico, del pensiero logico-deduttivo.
Centrale è a questo proposito la nozione di “individuo”, considerato il punto di intersezione di una somma più o meno vasta di descrizioni definite e di funzioni predicative che ne determinano la denotazione (3). Demandando il dettaglio a successivi approfondimenti, Matte Blanco si sofferma su tre fondamentali ordini di relazioni dette rispettivamente “simmetriche”, “non-simmetriche” e “asimmetriche”, giungendo a definire queste ultime come una partizione delle relazioni simmetriche (4), allo scopo di fondare una metateoria del pensiero inconscio.
Caratteristiche canoniche dell’inconscio quali l’“assenza di mutua contraddizione tra le presentazioni dei vari impulsi”, e quindi lo “spostamento”, la “condensazione” e la “mancanza di relazione col tempo”, oltre che la “sostituzione della realtà esterna con quella psichica”, sembrano riformulabili ricorrendo alla differenza sussistente fra le relazioni simmetriche e quelle asimmetriche.
Nel corso dei suoi esperimenti clinici, Matte Blanco notò infatti che: “[…] il sistema inconscio tratta la relazione inversa di qualsiasi relazione come se fosse identica alla relazione. In altre parole, tratta le relazioni asimmetriche come se fossero simmetriche” (5), giungendo alla conclusione che “[…] quando si applica il principio di simmetria non può esserci alcuna relazione fra le parti e il tutto” (6).
In pratica, il principio di simmetria sembra dileguare la percezione psichica dello spazio e del tempo. La successione nel tempo è di fatto un ordinamento seriale che non può sussistere senza l’ausilio di relazioni asimmetriche fra gli “istanti”. Ed è notevole che il concetto metafisico di “istante”, già individuato da Agostino di Ippona, coincida con la nozione di “atomo logico” o di “parte propria” in uso nella mereologia estensionale. Analogamente, l’ordinamento ortogonale dello spazio presuppone la capacità di distinguere fra loro i membri di una classe stessa, e le parti proprie dalla totalità.
Un discorso così astratta e apparentemente lontano dalla realtà diventa praticissimo se applicato al mondo dei sogni, ove l’assurdo è di casa, o ancor più alle patologie psichiche, alle nevrosi, ai motti di spirito, alla menzogna. L’idea non è nuova. Anticamente non si parlava forse di “presenza di spirito” per indicare la chiarezza del pensiero? E la “presenza”, per esempio la “presenza di spirito”, non richiede forse la capacità di ben collocarsi nell’hic et nunc? Dunque, di “essere” il punto di applicazione di almeno tre vettori?
Riassumendo: 1° Il cyberspazio distrugge la relativa fissità degli oggetti del mondo reale. 2° Espande all’inverosimile i limiti fisici dell’attività cinestetica. 3° Offre la possibilità dello sdoppiamento corporeo e in definitiva dell’ubiquità. 4° Modifica radicalmente il rapporto tra i vissuti e la temporalità. È noto, infatti, che il tempo cronometrato e il tempo vissuto abitualmente non coincidono. Se la sensazione soggettiva del tempo soggiace entro certi limiti a una condizione di opacità, è anche vero che questa condizione diminuisce con l’accrescersi di un ordine diacronico razionale: il tempo della riflessione è anche il tempo della presenza e dell’autocoscienza, entro il quale la catena degli avvenimenti si dispone in un ordine logico necessario e sufficiente. In linea di principio, ciò significa che l’indebolimento delle relazioni spazio-temporali segue di pari passo l’espansione della pressione irrazionale e inconscia subentrante in uno spazio-tempo virtuale, privo di vere coordinate.
Sommerso dagli immensi materiali immaginifici scanditi in rapidissima successione, l’utente del ciberspazio sarà distratto dalla “intenzionale” considerazione degli oggetti del pensiero e dal “mondo”, inteso quale più o meno vasta rete di relazioni fra idee, concetti e individui (punti inestesi della trama spazio-temporale). Simile ad un immenso e perfezionatissimo videogame, il cyberspazio indurrà l’utente a un addestramento indiretto, fatto di rapidissime prestazioni, di stimolazioni e di immediate risposte cibernetiche, che in termini di soddisfazione libidinare risulteranno inversamente proporzionali al tempo di reazione programmato nell’architettura funzionale della macchina.
Guardando all’avvenire
E in un simile universo, quale spazio potrà mai conservare il prodotto della riflessione scritta o parlata. “I suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce”, affermava Aristotele (7), e così similmente anche Boezio, Agostino, Pietro Ispano, Ockham e, in tempi recenti, Carnap.
Concezione, questa, che presuppone l’immutabilità degli enti di ragione in quanto – per così dire – voci delle passioni dell’animo umano. Se la tradizione ora citata è nel giusto, allora il cyberspazio potrebbe trasformarsi in una immensa prigione psichica e sensoriale priva di confini e di senso, ma accattivante, seducente rutilante contenitore di immagini senza vera memoria.
Se invece si trova nel giusto la tradizione cui fa capo Matte Blanco, allora gli scenari wendersiani descritti poc’anzi non saranno che pallidi adombramenti di una realtà futura dalle fosche tinte. Lo sperano già oggi i teorici del movimento cyberpunk, affascinati dal mondo virtuale perché paragonabili a una “droga pulita”. Costoro fantasticano di mandala elettronici, di esperienze multisensoriali a stento concepibili, ritenendo con ciò di avere fra le mani le chiavi di un novello paradiso. Essi non considerano che la innaturale confusione fra il mondo del sogno e la realtà potrebbe di per sé provocare turbe psichiche anche in soggetti sani e dalla personalità ben strutturata; turbe descritte da Matte Blanco ricorrendo al modello degli insiemi inconsci infiniti.
Gli amanti di una malintesa “immaginazione al potere” non considerano soprattutto l’effetto che un simile strumento potrà avere sulle generazioni a venire, messe sin dalla primissima infanzia a contatto con un’iper-realtà che trascende i sensi umani.
La convivenza fra gli uomini è infatti regolata da una complessa rete di azioni verbali e non verbali che sottintendono l’interazione, lo scambio, e indefinitiva l’alea del contatto realmente fisico, con tutta la sua carica di rischio e di fascino. Occorre dunque chiedersi – per esempio – quale mai sarà la natura del comando, o dell’obbedienza, se fra gli interlocutori posti in un circuito virtuale cadrà l’inesorabile barriera elettronica ad impedire ogni contatto fisico. E quale mai sarà – sempre in tema di pragmatica della comunicazione umana – la forma e la natura di una preghiera, di una dichiarazione, di una constatazione, di una negazione, di una minaccia etc.
Tutti questi atti performativi saranno di fatto omologabili alle caratteristiche di un contesto impersonale.
Ridotti a simulacri di se stessi, gli abitatori delle realtà virtuali non potranno fornirsi del senso della “misura” che regola e prescrive le ragioni e le eccezioni di una azione. Anche nelle azioni tipicamnte umane vige infatti l’esigenza di una precisa definizione contestuale, mancando la quale le azioni stesse perdono consistenza. Che cosa sono mai – per esempio – una preghiera o un ordine o qualunque atto performativo se appartengono a un sogno? “Noi siam fatti della stessa sostanza di cui son fati i sogni” scrisse Shakespeare. Ma Goya realizzò una serie di incisioni riguardanti il sonno della ragione, che genera mostri.
Ma, a parte questo libro, è d’obbligo ricordare altre opere e altri autori, tra i quali, almeno: I. Couliano, “I viaggi dell’anima: sogni, visioni, estesi”, Mondadori, Milano 1991, p. 17. Cfr. anche la recensione di E. Zolla, “Tutte le visioni degli altri mondi: itinerari dell’anima secondo Couliano”, in “Corriere della Sera”, 10 luglio 1991. Recentemente Zolla ha pubblicato per Adelpphi il volume “Uscite dal mondo” avvincente testo in cui egli tratta anche delle tecnologie cyberspaziali, benché di sfuggita e con un taglio esoterico. È noto che queste ipotesi da tempo circolano nel mondo sommerso delle riviste e rivistine del settore (“Ario”, “Cyber” etc.), alle quali va innanzi tutto imputata la banalità delle tesi rispetto ai seri problemi sociologici, politici e psichici che l’avvento di nuove tecnologie di comunicazione invariabilmente pongono in essere.
La teoria logico-ontologica comunemente chiamata “mereologia estensionale”, come si evince dal suo stesso nome studia le relazioni esistenti tra le parti e il tutto. Essa è anche definita da Goodman e Leonard “calcolo degli individui”, per sottolineare il fatto che i termini delle relazioni fra le parti e il tutto appartengono al più basso tipo logico, escludendo quindi le classi, le funzioni etc. ovviamente, le proprietà formali di queste relazioni sono la transitività, l’asimmetria e l’irriflessività. L’assunzione che da un lato esistano individui denominato “atomi” (non nel senso che la fisica associa a questo termine) i quali non sono “parti proprie” e dall’altro che esista la somma di tutti gli oggetti denotata da un individuo di cui tutti gli individui sono parti (l’Universo) fonda la possibilità di un calcolo algebrico boolenano. Cfr. P. Simons, “Parts. A Study in Ontology”, Clarendon Press, Oxford, 1987.
Seguendo questa impostazione, concetti e oggetti assunti su variabili proposizionali sono logicamente equivalenti. Di conseguenza gli individui (o variabili categoriali) non soggiacciono alla gerarchia di entità logiche che va sotto il nome di “teoria dei tipi” e che stabilisce che ogni attributo deve essere necessariamente del tipo superiore (anche se non del tipo immediatamente superiore) al definiendum. Infatti, sorgono complicazioni quando si prendono in considerazione le funzioni relazionali, poiché oltre alle relazioni fra individui entrano in gioco le relazioni fra individui e attributi, fra attributi e attributi, o (nei campi di relazione) fra domini e codomini, e poi fra le classi di relazioni e così via. L’impossibilità teoretica di definire il concetto di relazione senza ricorrere appunto alla transitività, all’irriflessività e all’asimmetria, che sono a loro volta relazioni, e in ultima analisi relazioni spazio-temporali, rende circolare ogni definizione, in termini wittgensteiniani riconducendo il mondo ai limiti del pensiero di ciascuno. Cfr. L. Matte Blanco, “L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica”, (I ed. 1975), Einaudi, Torino, 1981, p. 354 e sgg.
Esempi di relazioni simmetriche sono evidentemente l’identità, la somiglianza, etc. esempi di relazioni non-simmetriche sono “fratello”, “amato” etc. (se x è fratello di y, y potrebbe essere anche sorella di x), perché sempre trasformabili in prodotti relativi. Esempi di relazioni asimmetriche sono “nonno”, “padre”, “maggiore di”, “minore di” (se x è maggiore di y, allora y è minore di x, e le due relazioni sono mutualmente incompatibili).
Matte Blanco, cit. p. 44.
Ib. p. 46.
Aristotele, “Aristotelis Categoriae et Liber de Interpretatione”, rec. L. Minio Paluello, Oxonii e Typographeo Clarendoniano, 1974, I ed. 1969, c. 1 (16° – 2-4).
R. Carnap, “Introduction to Semantics”, cit. repr. in “Introduction to Semantics and Formalization of Logic”, Cambridge-Mass, London Engl., 1975, pp. 3-5.