SCIENCE FICTION E FANTASY DALL’OTTOCENTO A OGGI
Il loro universo è molto giovane e il loro dio è ancora un bambino. Ma è troppo presto per giudicarli; quando torneremo nei Giorni del Giudizio, valuteremo che cosa si debba salvare.
Arthur C. Clarke
Dal principio dei tempi le parole hanno avuto a che fare con la Fine del Mondo (forse la maiuscola bastava a Fine). Esse sono contemporanee alla fine del mondo, giacché codesta fine è perenne. Intendo dire che il nostro progetto nel mondo include sempre codesta fine, non la consuma mai. Senza fine del mondo, non vi sarebbero parole.
Giorgio Manganelli
Che l’uomo non realizza il suo compito, ognuno lo sa; e meglio che di giorno, lo sa di notte. Di qui il tormento dei sogni degli esami; esistono dei sogni, pieni di angoscia, durante i quali si ha l’impressione di sostenere un esame o un’interrogazione; essi riguardano la razza umana e il Giudizio universale. Segue un sereno risveglio.
Ernst Jünger
PREMESSA
Superare la notte, aprire gli occhi, ascoltare il mondo intorno a sé, è sempre un miracolo. L’alba annulla le tenebre, dissolve le allucinazioni, placa le inquietudini. E poi ciascun risveglio racchiude la promessa di tutti gli altri che verranno.
E se invece ci ridestassimo nell’ultimo giorno? Se fossimo all’improvviso consapevoli che la rete temporale che sostiene l’esistenza fosse sul punto di essere annientata, e di lì a poco? Se gli impegni, le segrete speranze, gli oscuri timori, le sofferenze, le gioie, le occupazioni, le stesse credenze dovessero fulmineamente dissolversi?
Se fosse annunciata la fine dello spettacolo, per tutti?
Potremmo forse declamare un delicato auto-epitaffio, come nel tragico trapasso del replicante Roy Batty in Bladerunner di Ridley Scott: «E tutti… questi momenti, si perderanno nel tempo, come lacrime… nella pioggia».1 Ma non avremmo nulla da salvare, né alcuno cui comunicare l’ultima testimonianza. Quell’epitaffio sarebbe fuori luogo, perché si riferirebbe alla memoria delle vite di tutti e di nessuno.
I moribondi spesso testimoniano con la parola i loro ultimi momenti di lucidità perché annettono a ciò che resta, al mondo della vita, un peso che forse non hanno mai valutato sino in fondo, in tutto l’arco della propria esistenza terrena.
Però, oggi siamo abituati ad attendere la fine del mondo. Si può perfino sostenere che siamo stati addestrati a questo scopo. Il che ci porta immediatamente a domandarsi chi ci abbia ammaestrati, e perché; e, non ultimo, in che modo. La risposta alla prima domanda è elusiva per definizione, ma non per l’assenza di un soggetto logico. E quale? Se esso esiste, deve avere un fondamento radicale.
La seconda domanda dischiude molte e contrastanti ipotesi. Non c’è dubbio che l’attesa della catastrofe, conturbante amalgama di terrore e desiderio, sia correlata alle regole psicologiche della comunicazione. Più si moltiplicano gli strumenti del comunicare più è agevole che la verosimiglianza della fine del mondo, o perlomeno della perdita di un mondo, faccia breccia nelle coscienze. I media generalisti, com’è noto, prediligono le cattive notizie e mostrano un appetito insaziabile per le catastrofi globali. Cataclismi, piaghe, sconvolgimenti, conflitti e rivoluzioni sono il saporito companatico di una giornata mediatica ben spesa. Il cinismo è qui di casa. Prove tecniche di persuasione di massa? Può darsi.
Consideriamo ad esempio la metafora del contagio senza scampo. Negli ultimi decenni quasi non si contano le vere o presunte pandemie. Il virus dell’HIV è stato l’apripista, diciamo pure un’ottima esercitazione per determinare la potenza dei moderni mass media. Da allora sono apparsi e altrettanto rapidamente scomparsi l’Ebola, l’encefalopatia spongiforme bovina (la nota «mucca pazza», potenza dei nomi!), l’antrace, la Sars, l’influenza suina (immonda già nell’appellativo) e l’aviaria (volatile, imprendibile fin nel lemma).
L’invisibile contagio può annientare anche il mondo delle macchine. Un esempio rappresentativo di matrimonio alchemico tra il vecchio chiliasmo dei secoli bui e la fuga futuristica nella seducente società hi-tech fu il cosiddetto «Millennium bug». Il mondo intero – si ricorderà – fu infettato da questo singolare retrovirus comunicazionale. Si disse che il cambio di data dal 31 dicembre 1999 al 1 gennaio 2000 avrebbe causato l’azzeramento della maggior parte dei sistemi operativi, perché tarati col vecchio computo temporale a due cifre. Il conseguente collasso della rete informatica globale avrebbe poi provocato un effetto valanga d’inimmaginabili proporzioni, precipitando di colpo l’umanità in pieno medioevo.
Beh, peccato. Sarebbe stata una fine del mondo davvero originale. Non per nulla l’idea ispirò illustri artisti e celebri sceneggiatori.2 Naturalmente non accadde alcunché, e il primo gennaio del 2000 l’avvincente congettura dell’Armageddon per difetto di calcolo fu archiviata in tutta fretta; ma non per sempre. Infatti, è rispuntata più forte di prima con l’annuncio di un bug che «inesorabilmente» colpirà i sistemi Unix alle ore 03:14:07 del 19 gennaio 2038.
Fortunatamente mancano quasi trent’anni per abituarci all’idea, e inoltre potrebbe essere una preoccupazione inutile. Recentemente l’astrofisica Margherita Hack ha ricordato che il 13 aprile del 2036, due anni prima del presunto cedimento informatico, la Terra rischierà la distruzione a causa dell’asteroide Apophis (ancora un nome indovinato, che deriva dal dio egizio della distruzione): gigantesco macigno cosmico che impatterebbe il pianeta alla velocità di quarantamila chilometri l’ora. Se Apophis conserverà la sua orbita, lo schianto eclisserà quello che circa sessanta milioni di anni fa determinò l’estinzione dei dinosauri.
Le grandi catastrofi stimolano potenti dispositivi narrativi, ma questi col tempo subiscono un’imprevista erosione interna. I disastri nucleari di Cernobyl e di Fukushima, tra loro separati solo da un quarto di secolo, hanno prodotto ben differenti masse critiche. Fukushima fu all’ordine del giorno per circa tre mesi, ma trascorso appena mezzo anno uscì di fatto dall’agenda setting. Cernobyl, al contrario, scatenò un’attenzione mediatica senza precedenti, che si protrasse negli anni. Il dispositivo narrativo genera assuefazione e addiction perché si basa sui dati, sugli eventi. La referenzialità è pertanto un ostacolo, non un vantaggio.
Ben diversa è la qualità e la forza di penetrazione psicologica della narrativa apocalittica, oggetto di questo libro. L’assenza di referenzialità è in quest’ambito vantaggiosamente compensata dalla ricerca del senso e del fine, in una parola dalla teleologia.
La fine del mondo è stata descritta in una sorprendente varietà di romanzi, film, dipinti, testi teatrali e poemi. Questa proliferazione di opere dedicate alla distruzione del genere umano solleva interrogativi sul godimento che si ricava nel partecipare da spettatori o da lettori alla cancellazione della storia. In effetti, l’attrazione morbosa per la fine di tutte le cose è ammessa tra le patologie psichiche ed è definita, di volta in volta, «reazione di Sansone», «reazione del dottor Stranamore»3, «proiezione dell’individuale volontà di morte» 4 o «distruttività estatica»5.
Le varie interpretazioni attribuiscono ai creatori, ma soprattutto ai fruitori, alcuni tratti psicologici devianti, che sconfinano facilmente nelle proiezioni patologiche. Se è vero, allora simili patologie dovrebbero disturbare le moltitudini, perché la produzione catastrofista si rivolge al pubblico universale, nello spazio e nel tempo; da qui la non referenzialità di questi dispositivi retorici.
Il web consente di farsi un’idea del fenomeno. Siti che alludono alle apocalissi prossime venture sono centinaia di migliaia. Il lemma «apocalypse», solo su Google, annovera oltre novantacinque milioni di connessioni registrate (quasi tre milioni se è in italiano). L’espressione «the end of the world» capitalizza quasi diciannove milioni di siti, «Armageddon» oltre sessantacinque. Religioni e sette esoteriche di ogni tradizione e origine geografica si contendono il cyberspazio apocalittico, spesso utilizzando abili mix d’immagini e suoni estratti da molteplici situazioni.
Non è raro, per esempio, vedere accostati nei siti web miniature medioevali a fotogrammi di Armageddon, e questi a una ricostruzione virtuale del Big Crunch prodotta dalla NASA. Lugubri brani evocativi, selezionati dal repertorio musicale di tutte le epoche, drammatizzano l’acustica dei siti «premonitori». Un gusto letale ma trasversale, non direttamente correlato ai messaggi dei profeti di sciagura, attraversa e impregna l’intero cyberspazio.
Si segnala poi l’uso improprio della parola «apocalisse», o dei suoi affini, nei titoli di migliaia di articoli, saggi, interviste e reportage, sovente dai contenuti estranei al concetto in esame. Infatti, la locuzione possiede il singolare potere di catturare lo sguardo del lettore, letteralmente «distraendolo» da ogni altra occupazione. Ma quando l’apocalisse è materia della letteratura fantastica, essa talvolta riesce a intercettare i diffusi timori e gli inespressi umori più di quanto non sia consentito ad altri soggetti, e più a fondo.
Il volume scandaglia l’opera di vari autori che nell’arco di quasi due secoli hanno tentato quella scrittura paradossale che è il genere apocalittico. Il periodo temporale in esame coincide con l’affermarsi della modernità quale sistema di vita e di pensiero ed è quindi logico che gli autori presi in considerazione siano quasi tutti scrittori di fantascienza o della protofantascienza. Alcune personalità sono state purtroppo trascurate, non perché meno importanti, ma affinché l’amore per la completezza filologica non ostacolasse il principio che guida questo lavoro, e cioè che la scrittura sulla e della fine del mondo, nell’era moderna e contemporanea, sia la sola interfaccia possibile tra due sistemi tra loro non comunicanti.
L’apocalittica letteraria e cinematografica nel frattempo si è diffusa come un virus, favorita anche dal web; come se il sistema di comunicazione vigente e dominante fosse l’interfaccia privilegiata per scandagliare le inconsce premonizioni collettive. Essa è dunque paragonabile per molti suoi aspetti a un sensibilissimo sismografo, profondamente innestato nei gangli di quel sistema nervoso planetario in costante evoluzione che chiamiamo «umanità».
Cap. I – GRANDI APOCALIZZATORI MODERNI
1.1 Apocalissi pure e spurie
1.2 La logica degli elementi
1.3 La fine dell’uomo secondo Mary Shelley
1.4 L’Apocalisse aerea da Jack London a James Cameron
1.5 Catastrofi uraniche e collassi terrestri
Cap. II – APOCALISSI MISTICHE E FILOSOFICHE DEL PRIMO NOVECENTO
2.1 Il vincolo escatologico
2.2 La fine del mondo secondo Mattew P. Shiel
2.3 Il cupio dissolvi di Richard Jefferies
2.4 L’Armageddon tecno-spirituale di Robert Benson
Cap. III – FUTURISMO APOCALITTICO
3.1 Futurismo post-simbolico
3.2 Marinetti profeta della fine del mondo
3.3 Lo strano caso di Ruggero Vasari
3.4 Il millenarismo di Volt
3.5 Morte e resurrezione nei racconti parafuturisti di Čapek
Cap. IV – FUOCO, TERRA, ACQUA
4.1 Il fuoco distruttore
4.2 Mordecai Roshwald, Ben Bova e Stanley Kubrick
4.2 Della Terra e dell’acqua. La rivolta degli elementi della vita
Cap. V – ARMAGEDDON ROBOTICA
5.1 Il servitore perfetto di Clifford Dante Simak
5.2 Il magnifico suicidio collettivo di Tevis
5.3 Morte e resurrezione con gli automi in Isaac Asimov e James White
5.4 Il piacere della fine del mondo secondo James Gunn
Cap. VI – NUOVE ICONOGRAFIE APOCALITTICHE
6.1 Pianeti erranti e mostri distruttori
6.1 Anomalie in Wyndham, Thomas e Spitz
6.2 L’apocalittica sferica in Vernor Vinge, Hiroki Endo, Stephen King e Michael Crichton.
6.3 L’inferno affollato di Harry Harrison
Cap. VII – RIDONDANZE APOCALITTICHE
7.1 Limiti della pensabilità della fine del mondo secondo Kant
7.2 La reductio ad nihil di Günter Anders
7.3 Il medium nucleare di Jacques Derrida
7.4 Finis temporis in Olaf Stapledon
7.5 Fuga simbolica nell’ultrafuturo